Nel ventre di Mocciola per un destino da carusi superschiavi

Fotografia originale di fine Ottocento con carusi in primo piano

Avete idea di che cosa significhi essere schiavi? Lo sapevano bene i “ragazzini” siciliani nelle miniere di zolfo, senza neppure un indumento in un’autentica bolgia dantesca. E non è un mondo scomparso. Ecco un monologo di Antonio Mocciola recitato da Salvo Lupo, nudo in scena come lo furono loro

 

Salvo Lupo, 26 anni, siciliano

Il tema dello sfruttamento disumano ai danni di lavoratori ragazzini, è parte integrante del rimosso storico collettivo, ma per millenni è stata la regola quotidiana. Lo riprende Antonio Mocciola, nel suo consueto scavare nei mondi dimenticati, in questo testo “Nel ventre”, inteso come ventre della terra, miniera. O anche terra matrigna. Dobbiamo tornare indietro di un secolo, quando bambini e adolescenti siciliani chiamati carusi venivano calati a centinaia di metri per lavorare all’estrazione dello zolfo. Bambini venduti dai loro genitori poverissimi a imprenditori-aguzzini senza alcuno scrupolo. 

Noi in Italia questo fenomeno lo abbiamo avuto fino agli anni 60. L’ultima miniera fu chiusa quando le condizioni di lavoro erano un po’ cambiate, ma dal XVIII secolo – in coincidenza con la rivoluzione industriale – furono terrificanti perfino per degli schiavi: sempre al buio o alla luce delle sole lampade, senza vestiti salvo uno straccio intorno alla vita e più spesso neppure quello. Paghe da fame, orario di lavoro prossimo alle 16 ore. Questi ragazzetti vivevano al massimo 30-35 anni, un destino troppo tragico per essere capito oggi.

Non è teatro borghese

Cimentarsi in un ruolo simile non è certo facile, ma Salvo Lupo, 26enne attore siciliano, con già alle spalle 11 recite teatrali in 6 anni, e due cinematografiche (in scena si avverte bene che c’è professione) ci riesce credibilmente affrontando il ruolo con un coraggio e una convinzione che è davvero prerogativa di pochi giovani attori esprimere. Chiaramente, Salvo si trova meglio nei ruoli tormentati di un personaggio violentato dal destino piuttosto che nei panni di un rampollo di buona famiglia borghese.  Il testo di Mocciola, per niente facile, è da lui recitato con l’abito di scena dei carusi, ossia la nudità totale dall’inizio alla fine. Perché nudità totale? Non è né provocazione, né altro, semplicemente gli indumenti o il perizoma a contatto con il sudore che cola copioso con quel caldo terrificante misto alla polvere dello zolfo scavato, “bruciano” i tessuti, si appiccicano sulla pelle ed è difficile lavare via. 

La locandina

Salvo Lupo non ha proprio le phisique du rôle, non ha la stessa magrezza degna di un lager, né la stessa età dell’adolescente impersonato, ma il suo dialetto siciliano parlato come lingua madre, quando usato in questo testo, crea abilmente un monologo che fila alla perfezione, ricostruisce in un attimo la Sicilia e il personaggio vittima di questo oscuro paesaggio. La nudità dell’attore, spiega Salvo, «è obbligatoria, è una forma di rispetto e di solidarietà verso quei ragazzi dalla vita impossibile, il cui abito di lavoro è la loro stella pelle, una identificazione che passa attraverso la perdita obbligata di tutto il pudore, la spersonalizzazione forzata fin dal primo giorno di lavoro».

Senti di essere schiavo giusto quando ti espropriano del corpo. Quei ragazzi non sapevano nemmeno che cosa volesse dire essere schiavi, ne vivevano la condizione e basta. Ecco un passaggio significativo del testo di Mocciola: “Benvenuto in miniera. Io mi aspettavo che mi dessero un elmetto, una lampada, qualcosa! Niente, mi hanno detto. Non avrai niente. Starai tutto nudo, a piedi nudi e a mani nude, tanto i panni si brucerebbero addosso e l’elmetto ti fonderebbe il cervello. Forse da grande, se diventerai grande, avrai uno straccetto per coprirti la minchia. Adesso sei caruso, e non ti spetta”.

I carusi di oggi nel mondo

Caruso in solfatara, inizio 900

Il caruso viene bastonato, è l’universo concentrazionario tenuto da un sistema di punizione. Senza pietà dal caposquadra. O dai colleghi altrettanto sfortunati. La molestia sessuale è sempre presente, a ogni momento, per il caruso è anche difficile difendersi. E i rischi si contano a non finire. Devi stare attento se ti danno le lampade ad acetilene, basta un contatto e parte la fiammata. Sai quanti sono rimasti bruciati? Basse devi tenerle, basse!”. La regia di Marco Medelin, non priva di qualche pecca, approfittando della penombra del ventre di Mocciola e degli spazzi di luce, improvvisa con il corpo schiavizzato di Salvo componimenti che richiamano i  disegni di nudi di Michelangelo, o di De Pisis, deformazioni corporee alla Bacon, tragedie facciali di Rainer, delinea continuamente deformazioni.

Rappresentare in scena un monologo unicamente per ricordare un dramma sociale antico e irripetibile quale quello delle solfatare? E perché no. Quale mondo dello spettacolo sarebbe se dimenticasse il mondo da cui proveniamo?  A ben guardare, il lavoro e lo sfruttamento di bambini è una realtà affatto odierna: il lavoro minorile è tutt’ora un fenomeno di dimensioni globali riguardanti 152 milioni tra bambini e adolescenti — 64 milioni di bambine e 88 milioni di bambini — di cui la metà impiegati in attività pericolose la salute, la sicurezza e il loro sviluppo fisico-morale.

 

Qui sopra: il trailer di un film ambientato nel mondo delle solfatare rende bene l’idea

 

 

 

 




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