Passannante e re Umberto, due Risorgimenti da psichiatria

Nel 1878 un anarchico lucano tentò di uccidere Umberto I. Il gesto, sebbene dimenticato dagli storici, è importante perché dimostrò essere già cessata la “luna di miele” fra gli italiani e i Savoia. Vicende ricostruite in un lavoro teatrale dove si scontrano le dimensioni storica e psicologica 

Una fotografia di Giovanni Passannante

Talune opere teatrali o cinematografiche ad ambientazione storica, sembrano capaci di restituirci il senso e la profondità dell’incredibile progresso sociale raggiunto fra un secolo e l’altro. Il progresso della Storia non è un’idea banale di comunisti ubriachi, esiste veramente, non è una bufala marxista. Per esempio, ancora un secolo fa, nel Regno d’Italia nessuna donna laureata poteva esercitare pubblicamente la professione conseguente alla laurea. L’interdizione vergognosa cadde solo un anno dopo la Grande Guerra. In questi giorni è andato in scena un lavoro al Teatro Instabile di Napoli, intitolato “Risorgimento, vado a uccidere re Umberto”.  Ne sono co-autori Edgardo Bellini e Antonio Mocciola, con la regia di Gennaro D’Alterio e con l’aiuto di Francesca Davide. 

Del secondo abbiamo più volte scritto come indagatore (e in un certo senso “inquirente”) di vicende significativamente tragiche ingiustamente dimenticate. Anche in questo caso, insieme a Bellini ha ripreso la storia di Giovanni Passannante (1849-1910). Nato suddito di re Ferdinando II in un paesino lucano, morto sotto i Savoia in un manicomio italiano; spostatosi fra Salerno e Napoli, divenne anarchico. Scontò 10 anni di carcere in condizioni a dir poco disumane (altro che 41 bis), la colpa: avere attentato alla vita di re Umberto II, a Napoli il 17 novembre 1878, esattamente 23 anni prima che lo stesso atto riuscisse a Gaetano Bresci.

eroe o martire

Francesco Petrillo in abito di scena

Passannante trascorse l’infanzia ad aiutare la famiglia numerosissima in miseria, vedendo morire quattro fratelli in tenera età. Da bambino chiedeva l’elemosina. Lasciato il paese, conosce diversi esponenti repubblicani, socialisti e anarchici, da cui riceve una discreta istruzione autodidattica. Come accadeva spesso nel mondo rivoluzionario in quel periodo, progetta e attua l’accoltellamento di Umberto I. A dire la verità era diventato re da 10 mesi e non si era ancora rivelato la “belva” che dimostrò di essere quando premiò il generale Bava Beccaris per avere massacrato a colpi di cannone ben oltre 100 operai a Milano. L’attentato ebbe un’eco enorme in tutta Europa, salutato con decine di manifestazioni e scontri nelle piazze. Sebbene fallito e oggi dimenticato dalla Storia, fu un gesto importante perché dimostrò essere cessata la “luna di miele” fra gli italiani e i Savoia, come notò la stessa regina Margherita e come definitivamente si consumò nel referendum tenuto una settantina d’anni dopo.

Condannato a morte per un gesto grave ma in fondo non riuscito, Passannante fu graziato dal “Re Buono” in virtù della sospensione de facto della pena capitale fin dal 1877. Le cronache benpensanti del tempo ovviamente si sprecarono nell’elogiare il buon cuore del sovrano. Nella verità dei fatti, il 32enne attentatore fu intrappolato in una umidissima segreta e ivi restò per un decennio. Fu tenuto sempre incatenato in una stanza minuscola e oscura, dove oltre ad ammalarsi gravemente, letteralmente impazzì. Il maggiore scienziato del tempo, Cesare Lombroso, pur senza visitarlo, aprì una polemica con i periti, convinto della pazzia dell’anarchico, negata invece dai medici, i quali però non esitarono a dichiarare folle l’intera famiglia dell’attentatore. Ridotto a una larva umana, a seguito di mobilitazioni politiche e parlamentari, fu trasferito in manicomio, dove morì 20 anni dopo accanto all’albero di limoni che lui stesso aveva piantato in giardino.

Murales di Giovanni Passannante nel paese natale, Savoia di Lucania, chiamato così in riparazione dell’attentato. Il paese prima si chiamava Salvia

scienza e carcere

Ecco, proprio l’albero di limoni contrapposto alla bandiera italiana, fanno da scenografia a “Risorgimento, vado a uccidere re Umberto”. È andato in scena all’Instabile di Napoli, con Francesco Petrillo nel ruolo impegnativo di Passannante (a cui fra l’altro assomiglia), con Giuseppe Brandi ed Emanuele Di Simone nei ruoli rispettivamente di direttore del manicomio e di Cesare Lombroso. Quest’ultimo è richiamato nella veste di massima espressione psichiatrica dell’Ottocento, tutta protesa a misurare crani, a conservare cervelli di briganti in formalina e a inventare relazioni dottissime sui caratteri ereditari della delinquenza e sull’inferiorità congenita dei meridionali. Il Passannante di Petrillo è quanto di più lontano da una figura patetica, possiede integro tutto l’orgoglio di un cittadino meridionale tradito. Non perde mai la dignità. Anche quando è costretto a denudarsi completamente negli interrogatori di quella sorta di psico-polizia ante litteram che erano un po’ tutte le congreghe mediche in Europa.

I carcerieri descritti dal testo se ne accorgono: mentre gli altri detenuti si denudano per offendere, lui non compie mai questo gesto. Afferma al contrario di vergognarsene perché in quei frangenti rinfacciare il pudore violato d’autorità è l’unico modo di evidenziare il contesto spersonalizzante e oppressivo. Petrillo lasciato senza nemmeno uno straccio, un perizoma, crea un particolare abito di scena e diventa materia di discussione. L’attore mette in scena la personalità di un prigioniero dei tempi, nulla a che fare con la delinquenza.

quasi giovanni battista

Sia il direttore del manicomio, sia Lombroso nell’interpretazione di Brandi e di Di Simone sono pacati intellettuali convinti di avere la ragione dalla loro parte, non si rendono neppure conto di seviziare molto oltre ogni misura un prigioniero, non sanno di personificare uno Stato incosciente di essere già morto. Serpeggia il dubbio di avere a che fare con un profeta, perfino Giuseppe Garibaldi nel 1880 definì apertamente Passannante un «precursore dell’avvenire». E in effetti la lettura che Mocciola e Bellini, aiutati in questo dalle spoglie mura millenarie del Teatro Instabile (ex basilica paleocristiana sorta cuore greco di Napoli), offrono di questo personaggio storico tirato fuori dall’oblio ricorda abbastanza nettamente il Giovanni Battista delle Scritture, o il dipinto caravaggesco della decapitazione.

Una scena dello spettacolo Una scena con Francesco Petrillo, Emanuele Di Simone e Giuseppe Brandi

Tutto l’insieme di “Risorgimento, vado a uccidere re Umberto” è la rappresentazione di una congiura pilatesca contro l’innocenza pericolosa. Passannante non è un eroe perché ha tentato di uccidere il re. Eroe lo ha fatto diventare l’apparato concentrazionario dello Stato, la serie carcere-manicomio-medicina-psichiatria con il trattamento massacrante riservatogli, espressione dello Stato e della scienza in quel momento. E’ qui che la personificazione di Petrillo colpisce nel segno: non è un eroe quando tenta di uccidere, lo diventa dopo. E Petrillo lo fa diventare tale con la collaborazione inconsapevole del direttore e dello scienziato. Il Di Simone e il Brandi bravi nell’interpretare tale inconsapevolezza.

Vedi l’approfondimento biografico QUI

Qui sopra: il momento degli applausi, con breve spiegazione. Da sinistra: l’autore Edgardo Bellini e gli attori Giuseppe Brandi, Francesco Petrillo, Emanuele Di Simone e l’altro autore Antonio Mocciola. Regia di Gennaro D’Alterio con l’aiuto di Francesca Davide. 

Immagine in alto: murales dipinto su un muro di Savoia di Lucania in ricordo del gesto di Passannante

 

 




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