Una trilogia sui poeti maledetti: Verlaine, Rimbaud, Lautremont
SOMMARIO Tre pièce teatrali separate, tre monologhi di Antonio Mocciola prima della futura rappresentazione con i tre personaggi insieme. Uno studium per avvicinare giganti della poesia “maledetta”, della libertà espressiva. Scassinatori arditi della morale pubblica, hanno aperto le gabbie del perbenismo borghese
di Roberto Schena
Che cosa colpisce dei titoli inventati da Antonio Mocciola? Il contenuto poetico nascosto dietro un paradosso, per esempio: Ho scritto il silenzio, Ero Verlaine, Mal d’aurora. Sono tre titoli di altrettanti monologhi messi in bocca a tre personaggi illustri della poetica mondiale, due dei quali adolescenti o poco più al momento della loro esplosione letteraria. Uniti tutti e tre dalla loro epoca, ricchissima di rivolte, acquisiti ormai come “poeti maledetti”, ecco Paul Verlaine, Arthur Rimbaud e Lautremont (pseudonimo di Isidore Lucien Ducasse), conosciuti in Italia per fama, soprattutto i primi due, mai nella loro dimensione reale, realmente rivoluzionaria. Rimbaud è il Karl Marx, il Garibaldi della poesia, Lautremont il suo Bakunin dinamitardo.
Tre monologhi diversi in attesa di una futura pièce teatrale unica, scritta da Mocciola e da Roberto Schena, in cui esordiranno tutti e tre insieme con i volti di Emanuele di Simone, Giuseppe Brandi e Francesco Petrillo.
Verlaine, quando conosce Rimbaud, era più grandicello di 10 anni, ne aveva 27 ed era poeta già affermato. Capisce subito l’enorme talento del ragazzino e gli offre tutto se stesso, corpo, anima, mente e non solo. Arthur diventa la via di fuga ideale. Forse non è nemmeno il caso di parlare di omosessualità, come sostengono le biografie, i due non sanno precisamente che cosa li leghi, salvo una passione letteraria comune così forte da travolgerli insieme, offrendo un’idea sconvolgente di sesso libero. Non è amore casalingo, innamoramento di routine, non lo è sicuramente dal punto di vista romantico. Non c’è niente di “maturo”, Tra l’altro, nel periodo in cui hanno convissuto, intorno al 1971-72, con la Comune di Parigi alle spalle, il termine omosessualità non esisteva nemmeno, o comunque circolava solo fra le élite scientifiche e non prima del 1869, quando fu ufficialmente coniato da Karl-Maria Kertbeny, scrittore ungherese nemmeno laureato, in grado di esprimersi perfettamente in tedesco. Più che due amanti sembrano due scassinatori della morale pubblica, più che sessualità sembra ritualità, bestemmia antiborghese, più che una coppia sembra un sodalizio di terroristi disarmati usi a lanciare parole di peso, invece delle bombe. Lautremont, che pure era presente alla Comune di Parigi, non ebbe mai occasione di incontrarli, ma del resto né Rimbaud, né Verlaine si erano conosciuti in quei drammatici frangenti. Il tre poeti sono solo tre geni assoluti che lanciano granate della stessa marca nello stesso periodo ancora prima di conoscersi.
La lingua di Mocciola
Mocciola è un bravo interprete del linguaggio lirico, la sua poetica irrompe nelle situazioni più disperate provocando una rottura, un effetto d’arte. Ha creato questi tre monologhi per ognuno degli Autori francesi diversi, ficcandoci dentro tre suoi attori feticcio: Franceso Petrillo, Lautremont, Cesare Brandi, Verlaine, Emanuele Di Simone, Rimbaud. Fra l’altro, i tre assomigliano veramente ai tre poeti, nel viso e nel corpo richiamano i loro tratti somatici salienti. Rimbaud, contrariamente ai ritratti che solitamente ne fanno un ragazzo esile, in realtà in estate aiutava la famiglia nei lavori contadini, fisicamente era vicino al fusto senza barba rappresentato da Di Simone, capace di sfilare tra le altre statue al MANN, museo archeologico nazionale di Napoli, da cui è probabilmente scappato; Petrillo, un altro scappato dal MANN, ha lo stesso sguardo stupito e perso di Lautremont, morto a 24 anni a causa delle pessime condizioni sanitarie della Comune di Parigi assediata; il barbuto Brandi, che invece è scappato dalla moglie, è perfettamente sovrapponibile al Verlaine sovrappeso che si aggira in una cella delle prigioni di Bruxelles, dove avrà una metamorfosi reazionaria, come capita di sovente a grandi scrittori.
Lautremont si era appositamente traferito a Parigi varcando l’oceano dall’Uruguay per vedere la rivoluzione europea. Mocciola li ha messi tutti e tre nudi nel vero senso della parola, i tre attori recitano completamente privi di vestiti ottocenteschi. Occhio però, per Mocciola la nudità insistente non è mai provocazione, è invece banalità quotidiana, semplicemente: abito di scena. Parlando con affabulazione di se stessi, l’attore si spoglia degli abiti, appunto. Mostra come realmente la natura l’ha voluto e il nudo densifica incredibilmente le battute. L’attore nudo in scena obbliga il pubblico a familiarizzare strettamente col personaggio, si crea un’intimità formidabile, quasi parentale. Indubbiamente, è una forma derisoria del formalismo ben educato di cui è impregnato il teatro e il testo borghese. Un teatro che dimentica il corpo, imbarazzato nel mostrarlo, dimentica le sue origini ed è perpetuatore del teatro della noia offerta dal tran tran quotidiano.
Due città
In Mal d’aurora, il monologo di Lautremont offre il racconto di due città importanti: la Montevideo capitale dell’Uruguay, dov’era nato, e Parigi, dove morì troppo presto. La prosa teatrale di Mocciola è caratteristica per il linguaggio toccante e partecipato, come fosse ogni volta la commovente arringa di un avvocato chiamato a difendere i suoi clienti. Inizia con un’immagine di Montevideo: “Avevo 13 anni. Nudo, di notte, ritto sul porto, come un licantropo mi bagnavo di luce lunare. Ma alle prime luci dell’aurora, tremando, tornavo a casa. Così, senza vestirmi. Passavo baldanzoso tra i fischi e i lazzi delle puttane, che avevano finito di lavorare, e tornavano a casa. Mi convinsi che la luce dell’alba mi facesse male”. Il confronto con Parigi è assolutamente tragico: “Parigi mi opprime, e io sono allo stremo. Vivo in un quartino squallido e umido. Il mio libro è rimbalzato dagli editori, lo hanno anche stampato, ma non lo distribuiscono. Dicono che è osceno, e potrebbe fallire. Che sono fuori mercato. L’attesa mi strema. Le copie marciscono in magazzino. Il mio eroe si chiama Maldoror, e sono io. Sono io il mio eroe. È mio il suo canto. Ma nessuno vuole ascoltarlo, nessuno vuole leggermi. Nessuno”. È la Parigi pietrificata da una mancata rivoluzione, dove Verlaine e Rimbaud si conosceranno e scopriranno loro stessi.
Relazione sulle ali
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