LA CERIMONIA DELL’ASSENZIO, TRE POETI ANTIROMANTICI
Andato in scena per tre giorni nel marzo del 2025 all’Atm di Napoli, “La cerimonia dell’assenzio”, episodi di vita dei poeti maledetti Rimbaud, Verlaine e Lautremont, con le musiche di Andrea Casapruna, si basa su un testo scritto a quattro mani da Antonio Mocciola e Roberto Schena, che in questa pagina descrive l’impatto con le biografie dei tre letterati
di Roberto Schena Michele
Mettere in scena le vicende personali di Arthur Rimbaud e Paul Marie Verlain mi ha richiesto un mese di full-immersion nelle loro biografie, nelle loro incredibili “vite vissute”. Per prima emergeva prepotente la personalità di Arthur, genio letterario assoluto riconoscibile come tale già all’età di 10 anni, premiatissimo alle migliori scuole di Charleville (ancora adesso se lo ricordano!). Verlaine, al contrario, sprofonda nello sconforto e nell’assenzio, abbandona moglie, figlio, famiglia, casa, lavoro solo per stare accanto al ragazzo di 10 anni più giovane. Definirle vite straordinarie è poco, non rende l’idea, ci sono stati momenti drammatici di squilibrio, anche mentale. Mi resi conto subito che in Italia dei due sappiamo quasi nulla, a parte gli studiosi della lingua francese, nessuno in Italia conosce veramente la loro storia. Della vita vissuta insieme dai due poeti “maledetti” abbiamo scarne notizie, mentre sappiamo qualcosa di più se abbiamo frequentato un’aula di liceo, grazie soprattutto alla poesia del battello ebbro. Il testo è di un diciassettenne, Arthur Rimbaud, ed è forse per questo che incuriosiva me e i miei coetanei. Ma la realtà, mentre leggevo per la prima volta per intero le loro biografie dell’uno e dell’altro senza censure, superava la fantasia. Siamo di fronte a due fra i maggiori poeti della storia delle letteratura europea, e come minimo i loro dialoghi di conviventi non potevano basarsi su come cucinare la pasta coi broccoli. Dovevano per forza essere intessuti di cose alte.

Giuseppe Brandi (Verlaine) ed Emanuele Di Simone (Rimbaud) in scena con La Cerimonia dell’Assenzio al Tram nel marzo 2025
Il bandolo della matassa non poteva che essere offerto dal sonetto Du trou du cul, del buco del culo, per dirla senza traduzioni forbite, resa celeberrima più dal titolo osé che dal testo, raramente letta e capita, anche perché non è per nulla un componimento facile. Di un simile sonetto la cultura di massa, in Italia, non in Francia, sa poco o nulla. Il sonetto du trou du cul, non era semplicemente un divertissement per vilipendere la pruderie, la mentalità bacchettona che guarda caso funziona a meraviglia solo coi rapporti “estemporanei”, mai con quelli eterosessuali del maschio alfa. Semplicemente è l’unico sonetto che i due mattacchioni della letteratura franco-europea hanno scritto insieme, a quattro mani, una strofa lui, una l’altro, lasciando supporre di avere davanti a loro l’oggetto da poetare. Noi non sappiamo se i due avessero veramente rapporti omosessuali fra loro, con altri sì in periodi diversi, ci sono le prove, ma fra loro due assolutamente no, tanto meno rapporti anali, ammesso che interessino al di là del gossip. Oggi “la coppia di grandi poeti francesi” farebbe furore in tv, sui social, sulle testate.
La relazione omosessuale è solo presunta, supposta, o forse quasi certificata, ma le certificazioni d’epoca, in specie su questi argomenti, sono poco affidabili. Si confondono con i pettegolezzi di una società borghese ufficialmente moralista. Fra i due poeti non è intercorsa una sola poesia non dico d’amore, ma nemmeno d’affetto, tutto apparentemente è nelle righe di un’amicizia piuttosto comune. Si può ipotizzare l’autocensura, l’omosessualità non era illegale fin dai tempi della Rivoluzione francese, ma si sa, la gente chiacchiera e le chiacchiere, per i tribunali del XIX secolo, potevano essere prese come prove, in specie se si tratta di signori sposati che lasciano la famiglia e stanno insieme a un giovane. Il “si dice” bastava e avanzava per incastrare qualcuno, in base al principio che una brava persona non si fa parlare dietro. Rimbaud e Verlaine, soprattutto il secondo, avevano già raggiunto una certa notorietà nella Parigi di Napoleone III, erano la coppia ideale da prendere di mira, da usare come pretesto per rilanciale moralità e santità.
Sono le lettere sequestrate dal procedimento giudiziario aperto dopo il celeberrimo sparo di Verlaine a Rimbaud (gelosia?) a testimoniare che c’era un legame molto intimo, forse qualcosa di “innominabile” per l’epoca. Verlaine fu condannato solo per avere incautamente sparato a Rimbaud “per ragioni immorali”, ma senza la benché minima prova dell’immoralità, solo per deduzione bigotta, supposizione repressiva, “accertata” da una visita medica di dottori positivisti tenuti in gran conto, in realtà ansiosi di assecondare il tribunale. Da un’ispezione all’ano e ai genitali, imposta dal giudice, i due sapientoni conclusero che “senz’altro” Verlaine era un sodomita. come si diceva allora, mancava perfino il termine tecnico “omosessuale”, non era ancora stato inventato. In Belgio, a differenza della Francia, l’omosessualità era completamente illegale. Per Baudelaire il Belgio era la parodia della Francia e i belgi “scimmie che imitano i francesi”, ma loro due ci vanno lo stesso per fuggire da Parigi, dove moglie e famiglia si pongono delle domande sulla loro vita. .
Fra i due poeti, tutto è nei limiti di una amicizia apparentemente formidabile, in realtà semplicemente fragile. Verlaine abbandona moglie, figlio e carriera per questo ragazzo 17enne così geniale. E così attraente: noi non conosciamo il corpo di Rimbaud senza vestiti, sappiamo dalle foto che era di figura longilinea, ma poiché in estate aiutava la famiglia nei lavori agricoli, di certo anche il suo fisico doveva essere ben formato, interessante, statuario. Sapevo che sarebbe stato interpretato da Emanuele Di Simone, giovane attore dal fisico bello come un dio greco scolpito da Fidia, il che aiuta a capire il dramma di Verlaine, interpretato dal più maturo Giuseppe Brandi, e la totale subordinazione psicologica che lo legava all’adolescente. La bisessualità di Verlaine è conclamata, la racconta lui stesso con le poesie di una vita. Negli scritti di Rimbaud sessualità ed erotismo letteralmente spariscono, o sono presenti in modo molto celato, invisibile.
Per raccontare quella poesia del trou du cul scritta insieme, una strofa lui, una l’altro, doveva essere ricostruito l’ambiente letterario in cui hanno vissuto a Parigi, il club dei poeti parnassiani, per la verità apertamente molto disprezzato da Rimbaud, a ragione, ma l’atteggiamento sprezzante denotava la tendenza fortissima ad autoincensarsi, la considerazione esagerata che aveva di se stesso. Gli amici parnassiani erano poeti modesti, e lui glielo comunicava nel modo più traumatico possibile, divertendosi sadicamente. Verlaine inorridiva, imbarazzatissimo, ma di quel ragazzo era troppo innamorato per disfarsene come i parnassiani gli suggerivano. La ricostruzione del contesto letterario che ha portato alla composizione di quella poesia ha condizionato tutto il testo della messa in scena, tutti i dialoghi, basati peraltro su frasi scritte da loro stessi e adattate al racconto teatrale senza decontestualizzare. Sono battute estrapolate da loro scritti e lettere, ma rimaste nel binario della loro personalità esplosiva, anzi, pertinenti, perché pronunciate per significare sempre e comunque la loro anima antiromantica.
Scritta per scandalizzare i lettori di un poeta mediocre come Albert Merat, ridicolo vate piccolo borghese, e per colpire l’immaginazione povera della piccola borghesia romantica del tempo, lascia presumere apertamente una certa frequentazione dei due poeti maledetti con quella parte anatomica; i due sapevano perfettamente di essere motivo di crescente scandalo anche per questo. Si divertivano alle spalle della società borghese. Il fatto che fossero onnipresenti le due madri nel loro rapporto di coppia non aiuta a chiarire la natura della relazione, non abbiamo la certezza che le due madri fossero sicure di una relazione omosessuale tra i due figli. L’unica “prova” dell’esistenza di una relazione sessuale è data dall’abbandono della famiglia da parte di Verlaine, peraltro non richiesto da Rimbaud ma attuato ora con convinzione, ora con ripensamenti e sensi di colpa, di certo non si manda all’aria una vita per inseguire un efebo che non si concede nemmeno. Quindi, qualcosa c’era.
L’incontro fra due antiromantici con il Conte di Lautremont, interpretato da Francesco Petrillo, qualcuno ancora più determinato di loro due nel far saltare le convenzioni borghesi, è in realtà quanto di più romantico vi sia sulla scena, perché è l’incontro con un fantasma, con un morto, si entra nell’aldilà, il prodigio sa di cultura esoterica ottocentesca. Qui se ne occupa Antonio Mocciola, costruendo monologhi ispirati all’incontro un po’ pazzo e molto magico fra i tre personaggi.
La prova teatrale dei tre attori, eterosessuali, ma forse non è il caso di precisarlo, tra i quali c’è il regista dello spettacolo, Giuseppe Brandi è stata come al solito di valore, Di Simone, Brandi e Petrillo sono attori feticcio di Antonio Mocciola, l’autore dove il nudo integrale è sempre richiesto in quanto momento di liberazione imprescindibile, momento in cui l’attore rivela di possedere un potere catartico incredibile. In La Cerimonia dell’Assenzio mancano gesti affettuosi tra i due, e fra i tre, ma d’altra parte il loro non era un vero rapporto di coppia, o di ménage à trois. A un certo punto dello spettacolo entra il Conte di Lautremont, si inserisce in maniera violenta, si prende lo spazio, il personaggio è ancora più esigente e affamato di rivoluzione. La nudità dei tre in scena ha conferito comunque intimità, alleanza ai protagonisti, sigillando l’ostilità a ogni forma di romanticismo sentimentale.
Ora speriamo solo che torni presto in scena.
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