Il Vigentino e i suoi tre antichi borghi rurali (parte I)
Insieme a Castellazzo, Quintosole e Vaiano Valle, importanti ma piuttosto malandati, costituisce la zona più conosciuta come “Ripamonti”, ma il nome storico è Vigentino, municipio aggregato a Milano cento anni fa. Del suo passato rimane una chiesa d’arte che ha molte cose da dire
Testo di Roberto Schena
Si ringraziano per la preziosa collaborazione Michele Addavide e il prof. Danilo Bertoni, autentiche memorie storiche del Vigentino
Piccola premessa. Il Vigentino è uno degli 11 ex Comuni limitrofi aggregati a Milano nel 1923. Unitamente all’antico borgo di Castellazzo presenta vicende storiche tra le più interessanti del circondario milanese, nonché opere artistiche di alta scuola lombarda, conservate nella chiesa di Santa Maria dell’Assunta. Da qui, si deduce come il passato del Vigentino sia culturalmente più importante del quartiere moderno esistente nel tempo presente.
gli altri i borghi confinanti
Erano parte del Vigentino altri due antichi borghi noti col nome di Vaiano Valle e Quintosole. Ambedue, fino al XVIII e al XIX secolo sono stati a loro volta sedi comunali, con un loro sindaco. Anzi, nel 1869 furono annessi a Quintosole, il più abitato, sia Vigentino, sia Vaiano Valle, per cui il Comune si chiamava Quintosole. Tale denominazione rimase fino al 1893, quando il consiglio comunale, data la crescita demografica di Vigentino, decretò in questa località lo spostamento del municipio.
Il Vigentino ha sempre vissuto in simbiosi con borghi più prossimi appartenenti ai vicini Corpi Santi, in particolare Morivione, Macconago e Selvanesco. In generale, l’area comunemente considerata appartenente al Vigentino offre una mappa ricca di monumenti ancora legati al mondo rurale, là dove la città si dissolve, cedendo gradualmente il passo alla campagna. In parte sono visitabili, sebbene non tutti siano conservati al meglio, come meriterebbero, in parte no perché privati.
l’asse di via Ripamonti
La zona del Vigentino è meglio nota ai milanesi con il nome di un importante asse viario: via Ripamonti, sulla cui direttrice troviamo tre delle sei frazioni menzionate: Selvanesco, Macconago e Quintosole, rimaste ancora sostanzialmente immerse nel verde del Parco Agricolo Sud. Sono frammenti poco attaccati dal dilagare della metropoli e perciò connotati da grandi estensioni coltivate.
Dedicata a un illustre intellettuale milanese, lo storico Giuseppe Ripamonti (1573-1643), con i suoi sei chilometri e mezzo è la più lunga di Milano. Ripamonti fu un prete intellettuale duramente perseguitato dal cardinale Federico Borromeo, costretto a subire quattro anni di carcere prima del processo, per due anni dei quali ignorando le accuse e senza essere né un eretico, né avere compiuto reati. I suoi scritti furono la fonte principale di Alessandro Manzoni per I promessi sposi. La lunghissima via a lui dedicata (occorre un’ora di percorrenza a passo d’uomo), non è altro che la secolare strada provinciale di collegamento a Pavia, i cui terreni, a mano a mano che ci si avvicina alle Mura Spagnole, sono stati nel corso del Novecento, progressivamente riempiti di edifici industriali e residenziali. È una via eccezionalmente caratterizzata da una costellazione di borghi antichi, tutti quelli nominati in questo articolo.
borgo nato da uno sfollamento ai tempi del Barbarossa
L’antico abitato storico del Vigentino è quasi scomparso. Sono rimaste poche tracce della sua storia, risalente al XII secolo. Il 1162 è l’anno della svolta demografica. Qui intorno e probabilmente proprio nelle casupole che si vedono in una fotografia del 1910, pubblicata in alto, vennero ad abitare i milanesi cacciati dai quartieri delle porte Ticinese e Romana, durante la distruzione della città voluta dal Barbarossa su pressione di Cremona, Lodi, Pavia, Como, Novara, Vercelli. Poiché il borgo Vigentino non era abbastanza capace di contenere gli sfollati, furono utilizzati i casolari e borghi vicini, tra i quali spicca Castellazzo. Le due località sono distanti 600 metri l’una dall’altra in linea d’aria, oggi raggiungibili solo tramite un percorso tortuoso, ma un tempo c’era il viottolo di campagna diretto.
Castellazzo sul cavo del Ticinello
Castelazzo è un posto noto a tutti i milanesi, sebbene non con questo nome, dall’agosto del 2021, quando bruciò un grattacielo, la Torre del Moro. Nella stessa area, si trova il cavo Ticinello sormontato da un ponticello del Quattrocento tutt’ora esistente, intorno al quale c’era il borgo, di cui resta qualche interessante testimonianza negli attigui rustici sopravvissuti agli abbattimenti di varie epoche. Qui era situata una piccola fortezza militare.
Le cronache medievali parlano di un palazzo con finalità militari costruito ai tempi del Barbarossa. Il toponimo Castellazzo ricorderebbe proprio questo edificio del XII secolo. Nel 1401, il duca Gian Galeazzo Visconti lo donò ai frati dell’Ordine di San Gerolamo. Legati inizialmente alla Spagna, i frati erano dediti alla vita contemplativa, alla preghiera, allo studio e all’accoglienza ospitale nelle foresterie dei loro monasteri. La fortezza aveva una “fossa all’intorno murata entro e fuori, con Camere, sale, Colombaja, ponte levatoio e mol’altri edifizj”. Insieme, c’era un giardino che confluiva nei campi agricoli, anche questi donati insieme alle esenzioni fiscali.
Il cavo del Ticinello nasce da una diramazione del naviglio Grande in Darsena. Percorre sotto il suolo svariati chilometri ed esce in ques’area per poi proseguire dando vita al parco agricolo omonimo, caratterizzato dalle cascine Campazzo, ancora attiva, e Campazzino (in rovina). Fra questi prati vige ancora la cortivazione a marcita, ormai un unicum nella metropoli.
Castellazzo “città ideale”
In pochi decenni la fortezza fu trasformata in un monastero via via sempre più esteso, ricco e potente grazie a lasciti e testamenti ottenuti soprattutto in cambio di messe e preghiere a favore dei donatori per molti anni dopo il decesso. Il monastero di Castellazzo acquisì addirittura numerose chiese e conventi sparsi per il Ducato di Milano, nonché una serie impressionante di libri illustri che arricchirono una biblioteca imponente, conservata in gran parte all’Ambrosiana fin dal 1443. Diversamente avrebbe rischiato di finire a Roma, dove tra l’altro era reclamata.
Castellazzo dovette riflettere le idee dei girolamini intorno alla città ideale, argomento tipicamente dibattuto nel periodo rinascimentale. Nel 1514, nel quadro di varie iniziative di abbellimento artistico del monastero, fu realizzata una copia esatta dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, eseguita 16 anni dopo la conclusione del tanto apprezzato capolavoro, quindi particolarmente preziosa per la
vicinanza cromatica, cronologica e stilistica all’originale. Il capolavoro vinciano, infatti, iniziò quasi subito il processo di degrado a causa della tecnica, sperimentale ma errata, con cui è stato realizzato, per cui si pose il problema di trasmetterlo alle generazioni successive il più veritiero possibile prima del deperimento totale. Tra gli autori presunti si citano o Marco d’Oggiono, o Andrea Solario o addirittura Giovanni Paolo Lomazzo.
La chiesa di Santa Maria Assunta al Vigentino
Si suppose per lungo tempo fossero proprio i girolamini a fondare il primo nucleo della chiesa di Santa Maria Assunta al Vigentino. Si trattò probabilmente di un oratorio o una cappella costruita per consentire ai contadini del borgo di frequentare un luogo di religione, evidentemente carente, come spesso accadeva nelle campagne. Scavi archeologici sul posto hanno individuato resti di una chiesa databile al XII secolo e di una chiesa successiva, del XV secolo. L’ipotesi è che la chiesa più antica sia sia stata realizzata dai profughi milanesi stessi, citata nel 1228 fa Goffredo da Bussero nel suo Liber Notitiae Sanctorum Mediolani
Un documento del 1562 cita la piccola chiesa di allora rilevando uno stato di notevole degrado. Ci penserà l’élite del Vigentino a rimetterla a posto e ad ampliarla, con l’aiuto del cardinale Carlo Borromeo e successivamente del cugino Federico, il cardinal Federigo celebrato da Manzoni nel suo romanzo storico. Il tempio è attualmente un contenitore di pittura lombarda datata XVI e XVII secolo, all’interno del quale hanno operato fra i suoi maggiori esponenti: il Cerano, alias Giovan Battista Crespi (1573-1632) e Girolamo Ciocca (1569-1630), autore di ben tre tele dedicate alla Vergine qui presenti: Dormitio Virginis, Assunzione, Incoronazione della Vergine.
Bernardo Borroni, il parroco deus ex machina
Quest’ultima è particolare perché ritrae, sotto la scena, uno di fronte all’altro, San Bernardo di Chiaravalle (cosa che attesta il legame con la vicina abbazia cistercense) e il parroco della chiesa in quell’anno, il 1597, Bernardo Borroni, promotore dei restauri dell’edificio, un personaggio a cui il Vigentino di ieri e di oggi deve molto.
Nato da una famiglia della piccola nobiltà, fu ordinato sacerdote nel 1564 all’età di soli 14 anni, evento non straordinario in quel periodo. L’anno successivo fu nominato parroco di Vigentino in sostituzione del precedente. Apparentato con personaggi che rappresentano il meglio della cultura milanese, disponeva di una biblioteca forte di oltre 100 volumi.
Risacralizzazione dei Corpi Santi
La chiesetta affidatagli era talmente caduta in degrado, da essere ritenuta indegna dallo stesso cardinale Borromeo in visita. Senza contare il numero di abitanti raggiunto dal borgo, passati in pochi decenni da circa 600 a sfiorare i mille. Il parroco Borroni, unitamente a una rete di benefattori e all’aiuto morale della Curia, si propone di finanziarie i lavori d’ingrandimento. Fra il 1605 il 1609, nonostante i restauri fossero ancora in corso, la chiesa diventa deposito provvisorio di un numero notevole di reliquie provenienti dalle catacombe romane, in transito verso Milano. L’evento segnò non solo il prestigio della chiesa, ma rilanciava la sacralità dei Corpi Santi quale territorio sacro fuori dalle mura milanesi. I lavori di restauro e ampliamento proseguirono fino al 1621.
l’altare del rosario
Un paio di anni prima era stato dato il via alla costruzione dell’Altare del Rosario, capolavoro di arte barocca in legno dorato. Le pareti accolgono dipinti su tela di forma ottagonale, tutto lavoro del grande Cerano e della sua scuola. È la parte artisticamente più importante della chiesa, visitata due volte da san Carlo Borromeo, nel 1571 e nel 1582. Un suo notevole ritratto su tavola, posto sull’Altare del Rosario, sempre opera del Cerano, appare in una delle due tele accanto alla statua della Madonna. Il Cerano, si ricorda, è uno dei maggiori autori del barocco lombardo, è il preferito dal cardinale Federico Borromeo ed è il maggior ritrattista di San Carlo, autore fra l’altro delle 28 tele note come Quadroni di San Carlo, esposte in Duomo nei mesi di novembre e dicembre. È il progettista del Colosso di San Carlo ad Arona, sul lago Maggiore. L’altra tela posta sopra l’altare del Rosario al Vigentino è una figura di San Domenico da Guzmàn (1170-1221), a cui convenzionalmente si attribuiva l’invenzione del rosario. È il fondatore dei frati predicatori, lo stesso ordine molto attivo nell’Inquisizione sul piano della repressione controriformista e perciò molto gradito a San Carlo. Un loro adepto, Michele Ghisleri, fu eletto papa grazie all’appoggio di Carlo Borromeo.
I pittori del Vigentino sono i più vicini a San Carlo
Ancora il Ciocca, su commissione dei certosini di Pavia dipinse una Madonna con Bambino e San Giovannino, tra i santi Matteo, Maddalena, Caterina da Siena e Stefano, destinato al vicino Oratorio di Selvanesco. La tavola era presente nel posto fino al 1925, oggi purtroppo dimenticata in un deposito del Museo della Certosa di Pavia.
Gerolamo Ciocca, ottimo ritrattista, ancora giovanissimo fu l’allievo prediletto di un importante precaravaggesco, Giovanni Paolo Lomazzo (1538-1592), maestro anche di Ambrogio Figino (1553-1608), con cui il Ciocca collaborò nel contesto del tardo manierismo e del primo periodo barocco, di cui la facciata della chiesa al Vigentino è un esempio.
L’intero gruppo di pittori lombardi al lavoro nella chiesa del Vigentino è il più legato a San Carlo Borromeo e alle Instructiones da lui dettate in materia artistica. Nel corso del XVII secolo, la cura artistica della chiesa è proseguita con le tele del Cerano e del Ceranino, alias Melchiorre Gherardini (1607-1668) , allievo e genero del Cerano, e di Gerolamo Chignoli, di cui si hanno scarsi dati biografici ma è pittore noto, citato nelle guide artistiche già dal 1671.
Fine prima parte – segue seconda parte QUI e terza parte QUI
There are no comments
Add yours