Libri d’antan / 5. POSTFASCISMO, LA CITTÁ RISCOPRE… SE STESSA
Un libro del 1946 ritrova la cultura più profonda della città “all’insegna della vecchia Milano”, dopo il ventennale stordimento militarista degli “eia eia alalà” e dei “saluti al duce”, di modernità falsa e forzata. Tramandata oralmente
Articolo di Roberto Schena
All’insegna della Vecchia Milano, di Gino Giulini, è un coltissimo, simpatico e a tratti anche divertente racconto di cose, personaggi e ricorrenze milanesi. Il libretto uscì nel 1946 per conto delle edizioni Cebes, ovverosia Casa Editrice Bianchi e Sacchi, sita in via Mascheroni 2, in un elegante palazzo liberty di quattro piani, decisamente signorile. La Cebes non è più esistente e non abbiamo alcun altro dato sul suo conto, ma va ricordato quanto nel 1946 Milano si presentasse pesantemente distrutta dai bombardamenti. Questo preziosissimo tascabile di 300 pagine, uscito dalla tipografia con le strade invase da rovine ancora fumanti, aveva tutto un suo significato particolare. Esprimeva semplicemente il desiderio di recuperare lo spirito autentico della città dopo un ventennio di stordimento ideologico fascista, di propaganda forzata dal regime a ogni livello della vita sociale e culturale, di censure, di banalità ignoranti, superomismo e pregiudizi dittatoriali.
storia non scritta
Ne ho trovato una copia d’epoca nel settore d’antan della Libreria Scaldasole, situata nella via omonima dietro Darsena e Porta Ticinese. Nell’on line sono presenti ristampe anastatiche per pochi Euro. I capitoli sono sei, suddivisi secondo una logica attinenente la storia, per lo più non scritta, della Milano non ufficiale, tramandata soprattutto per tradizione orale:
I, All’insegna della Vecchia Milano, che dà il titolo al libro;
II, Arcobaleno di vita milanese;
III, Ricorrenze, feste e solennità religiose minori;
IV, Feste, riti e tradizioni;
V, il Carnevale;
VI, la Strada.
Purtroppo non c’è nulla dedicato al contado, ossia ai Corpi Santi e ai borghi del circondario. Un segno che già da allora erano incompresi e trascurati. Ma è anche sintomatico del fatto che nel dopoguerra non si presentassero affatto in degrado, erano importanti realtà produttive con un discreto numero di abitanti in grado di sopravvivere meglio alla prova della guerra.
prime luci dell’alba
Le prime pagine partono dalle prime luci della società industriale, di cui Milano già a metà secolo XVIII andava orgogliosa. Contemporaneamente, l’affacciarsi dell’età illuministica. La città, come il resto dell’Europa, andava liberandosi dai costumi troppo stretti imposti, dice il Giulini, dagli Spagnoli. In realtà, se vi furono degli oppositori all’eccesso di morigeratezza imposta dai Borromeo, Carlo e Federico arcivescovi, con la Controriforma furono proprio gli spagnoli, ma è significativa la tendenza a incolparli di tutto. Il Settecento porta a Milano il consumo e la produzione di beni voluttuari, giacché le materie prime, come stoffe, sete, lane di certo non mancavano e anzi sono sempre state di eccellente qualità.
Il secondo capiloto parla delle “estati in villa”, spiega perché i milanesi (benestanti) preferivano le ville ai castelli, considerati delle tetre prigioni. Ecco quindi che il circondario della città, dai Corpi Santi alla succesiva cerchia di Comuni, videro numerose cascine, o anche solo ville padronali, trasformarsi in piccole regge aristocratiche adatte alla residenza estiva, ovviamente quasi tutte abbatture dall’edilizia del secondo dopoguerra, ma questo il Giulini non poteva ancora saperlo.
consumismo endemico
Nel terzo capitolo si parla di Natale, Capodanno, Epifania e Pasqua, ossia come e quando nacquero le ritualità legate alle ricorrenze, quasi un inizio del consumismo con gli addobbi sofisticati delle vetrine e i regali in bella mostra, soprattutto per fare felici i bambini. Le ricorrenze urbane imposte dalla tradizione trascinano il consumismo. L’autore del libro, Gino Giulini, ricorda d’altro canto anche i periodi di penitenza. Avvento e Quaresima erano controllati dai noiosissimi e pignoli quaresimalisti, incaricati di far rispettare l’obbligo di morigeratezza dei costumi durante questi periodi. In pratica una sorta di guardiani della rivoluzione, una occhiusta “polizia integralista” del buon costume collegata all’arcivescovo. Istituita già dal Medioevo, fu notevolmente rinforzata da San Carlo.
Se i primi tre capitoli sono dedicati al mondo aristocratico e borghese, negli altri tre è protagonista il popolo.
molte sagre
Pervaso da una divertita, sottile ironia verso le credenze popolari, il quarto capitolo, è dedicato alle sagre. Si tratta di commemorazioni, sia solenni, sia festose, nate dalla consacrazione di un edificio religioso, dalla celebrazione del santo patrono, di una data particolare, durante le quali, accanto alle manifestazioni religiose, hanno generalmente luogo una fiera, un mercato, con messa in scena di competizioni, gare, grande vendita di dolciumi. Il Giulini descrive le ricorrenze di Sant’Ambrogio, con la fiera degli oh bei, oh bei, spesso dipinta da validi pittori per il suo fascino particolare, del Santo Chiodo e della Festa del Perdono, del Tredesin de mars.
Ci sono poi le feste più popolari, come la sagra di San Cristoforo, legata alla bellissima chiesetta sul Naviglio Grande, anche questa molto considerata come soggetto artistico, e poi le feste degli artigiani: i facchini, i calzolai, i brumisti, ossia i vetturini delle carrozze trainate da cavalli. Infine, si spiega in quale festa sia nato il risotto. Al momento in cui viene pubblicato il libro, erano tutte sagre molto sentite e seguite, oggi eccetto due o tre sono tutte scomparse, anche per il rarefarsi dei mestieri.
i carnevali e osterie ambrosiane
Interamente dedicato a una tradizione un tempo molto importante, il quinto capitolo è un “tutto sul Carnevale ambrosiano” che, come si sa, ruba tre giorni alla Quaresima, dura fino al sabato. Qui si parla allora delle maschere, di Meneghino e Cecca, di Beltramm della Gippa e della moglie Beltramina, che hanno preceduto i primi due ma di cui ormai si è persa la memoria collettiva. Si parla poi dei “corsi” mascherati, ossia dei lunghi cortei variopinti snodati per le vie, dei balli e delle veglie tenute un po’ ovunque. Si parla del Carnevalone con il re del Rabadan, nato nel 1870, ricchissimo di carri e di partecipanti ai ben due cortei, soppresso dalle autorità di polizia a Paese unificato, perché prendeva in giro anche il nuovo re d’Italia e quindi considerato “troppo irriverente”.
L’ultimo capitolo è dedicato alla strada. Qui davvero viveva la città, si affacciano le osterie, veri e propri centri sociali dell’epoca. Ci sono eleganti caffé per intellettuali e popolarissime birrerie, con i vari personaggi tipici delle vie, dei pregiudizi e detti popolari. Chiude con un velo di tristezza, trattando dei Tre giorni della Merla.
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