YARA, DUBBI SULLE INDAGINI E SULLE ACCUSE A BOSSETTI



Il centro polisportivo di Brembate Sopra

di Roberto Schena



Articolo aggiornato il 14 dicembre 2014



Non bastano le tracce di Dna per indicare la colpevolezza di qualcuno: se così fosse, chiunque potrebbe spargerle sul corpo di una vittima, facendo ricadere i sospetti su altri o sviando le indagini. La presenza di Dna è   un indizio importante ma non può da solo costituire una prova fondante un’accusa di omicidio.  Gli esperti sanno che non può essere una prova schiacciante, tanto più in un contesto di screening di massa, che nessuna norma prevede e regolamenta per favorire le indagini. Il Dna può essere utilissimo ove comparato con un sospettato in virtù di altre risultanze investigative. Invece qui è un punto di partenza, sopperisce a una scadente conduzione delle indagini, a vere e proprie inerzie, quasi l’esame genetico fosse l’unica strada obbligata. In questo modo, è spianata la via alla difesa dell’indagato e alla sua probabile assoluzione. 

Mi ero occupato personalmente del delitto già pochi giorni dopo, quando per il mio giornale compii un sopralluogo a Brembate di Sopra. La cittadina è ricca e ben amministrata, lo si vede subito. Centro della vita sociale è un enorme centro multisportivo comunale, sovradimensionato rispetto alle esigenze degli 8 mila abitanti, con tanto di piscina e un’infinità di palestre, stadi, opzioni praticamente per ogni disciplina. Non è un campetto con due docce. E’ di concezione ultramoderna, tenuto egregiamente dall’amministrazione leghista, che qui ha avuto un’altra idea geniale: ricavare dalla dismessa cisterna per l’acqua potabile un curioso osservatorio astronomico aperto a tutti, denominato Torre del sole. Intono, è tutta un’estensione di villette e residenze di lusso. Agli istruttori sportivi del centro, difficilmente sfugge qualcosa di anomalo nel comportamento dei ragazzi, impossibile che non riferiscano ai genitori se qualcosa di serio non dovesse andare. Non a caso le telecamere, pur collocate, non erano nemmeno state azionate. Mi ero reso conto, dal percorso casa-palestra, che il quartiere era troppo “su”, troppo “bene”, troppo “familistico” e controllato per consentire a un malintenzionato di stazionare o avvicinarsi; una persona sconosciuta, o straniera, la si noterebbe subito. 
Se la ragazzina al centro si è recata con le sue gambe, significa che i genitori dovevano sentirsi più che sicuri nel farle percorrere senza accompagnamento quel pur breve tragitto da casa. Il rapitore di Yara poteva essere solo una persona del posto, le uniche che potrebbero passare inosservate per l’ovvietà della loro presenza. Tuttavia, l’accusato numero uno, Massimo Giuseppe Bossetti non frequentava la palestra, lo ha detto lui stesso, non conosceva Yara. E nessuno del centro sembra conoscerlo come frequentatore o avere notato la sua presenza all’interno, né quella sera, né mai.  

Quando una settimana dopo il misfatto, il 4 dicembre 2010, i carabinieri raggiunsero Mohamed Fikri, di nazionalità marocchina, sulla nave diretta al suo paese, scrissi già il giorno dopo che l’uomo non poteva in alcun modo essere coinvolto. Brembate S. non è il posto dove un marocchino può sostare tranquillamente all’esterno del centro sportivo più grande e nuovo nella bergamasca, in attesa dell’uscita di una ragazzina senza essere visto dai passanti o dalla polizia locale, di solito piuttosto attenta da quelle parti. I malintenzionati lo sanno e se ne stanno alla larga. Non è nemmeno il posto frequentato da così tanti figli d’immigrati. E statisticamente, i reati sessuali compiuti ai danni di minori da parte di stranieri sono irrilevanti, davvero si contano su una mano. Brembate non è il posto dove un lavoratore straniero può tranquillamente entrare e uscire dal cantiere dove lavora, oppure ottenerne le chiavi per farci quello che vuole, di notte o di giorno. E’ infatti verso un cantiere di Mapello, a un chilometro e mezzo dal centro polisportivo, che i cani “molecolari” si erano indirizzati.  
Yara, per salire sull’auto di qualcuno di sua spontanea volontà,  doveva conoscerlo,  doveva sicuramente essere una persona del posto, nel qual caso avrebbe commesso una grave imprudenza a fidarsi di qualcuno solo perché compaesano. Lo sfondo pedofilo classico, famiglia/scuola/chiesa, intendendo la rete allargata delle relazioni in questi tre ambiti, resta l’unico percorribile.
La gigantesca ricerca effettuata sul territorio da una miriade di gruppi e associazioni durante le giornate successive non portarono a nulla. Questo perché le ricerche non furono condotte in modo rigoroso, scientifico, con l’ausilio delle carte aereo-fotogrammetriche o con l’uso dei satelliti, nemmeno nei luoghi più sospetti. E’ infatti esattamente in uno di questi, anzi, nel più sospetto dei posti, che è stato ritrovato, casualmente, il corpo della piccola, a pochi metri da una discoteca notoriamente mal frequentata, dove non si è mai mosso dal momento dell’omicidio (sebbene l’avvocato del Bossetti ipotizzi sia stato portato lì dopo qualche tempo).

Il luogo di ritrovamento del corpo, a 10 Km di distanza da casa.
Sullo sfondo la discoteca frequentata da sballati e spacciatori

Le indagini si sono rivelate col tempo un disastro, mal coordinate, come ammesso anche da alcuni rappresentanti sindacali di poliziotti in una lettera; la Procura di Bergamo era da mesi senza un capo e nonostante il caso scottante si è tardato anche troppo a nominarlo. Il vice procuratore ha fatto quello che ha potuto, senza riuscire a imporsi su questura, carabinieri, prefetto per un concreto coordinamento delle indagini. L’unica pista apparentemente utile è quella scientifica: si sottopongono al test del Dna ben 18mila persone, non sono mai state così tante, per vedere chi ne possiede uno analogo a quello ritrovato sugli slip della bambina. Non è automatico che sia dell’aggressore, ma così si preferisce ragionare. Un buon avvocato potrebbe smontare questa ipotesi. A quanto pare  non si potrà mai sapere nemmeno di che tipo sono le tracce organiche da cui è stato ricavato il Dna del presunto assassino: non è liquido seminale, non è saliva, non è sudore,   i tecnici hanno dedotto che possa essere sangue. O sebo. Plausibile, ma non al cento per cento, come servirebbe in un processo. 
Le tracce dello stesso Dna appartenenti a “Ignoto 1”  sono state trovate sia sui leggins, sia sugli indumenti intimi nelle zone soggette a tentativi di taglio e questo costituisce indubbiamente un indizio forte per un movente sessuale. Dopo molte peripezie, in base a questi unici presupposti, si arriva a individuare il “colpevole” nel 44enne   Bossetti. Il muratore, inaspettatamente per gl’inquirenti, nega radicalmente di avere mai conosciuto Yara; per giunta, nel suo passato non ci sono reati, tanto meno riconducibili alla sfera del sesso. Sul suo furgone Iveco Daily, gli esperti non hanno rilevanto la benché minima traccia della bambina, né di Dna, né di altro. 
Né la sorella gemella o la moglie hanno mai avuto a che fare con una persona violenta. Quella sera, afferma Bossetti, che rinuncia alla facoltà di non rispondere, «ero a casa. Sono un padre, ho tre bambini, uno ha 13 anni, la stessa età di Yara. Non farei mai un’atrocità del genere». Marita Comi dice del marito: «Non ho mai avuto sentore che a mio marito potessero piacere le donne più giovani. Lui è un bravo marito, molto dedito alla famiglia, ai figli. La sera non usciva quasi mai, stavamo spesso a casa. Se uscivamo era soltanto per vedere i familiari. Lui ha pochi amici, un giro ristretto». E non s’inventa un alibi per proteggerlo, di quella sera onestamente dice: non ricordo dove fosse mio marito. Non si affanna a trovargli un alibi inventato, è una famiglia onesta, fatta a pezzi dal terrificante tritacarne giudiziario-mediatico. E’ sempre dai media che i famigliari vengono a sapere del rapporto extraconiugale della madre di Bossetti. 
 A un Pm non può bastare il Dna identificato su un indumento, serve ricostruire le circostanze del delitto e spiegare la personalità dell’assassino. Per ora c’è poco o nulla da mettere nel conto. Riguardo i cellulari, Mapello è confinante con Brembate S. ed è a poche centinaia di metri dal centro sportivo: la strada dal centro sportivo brembatese conduce a Mapello, lì vicino c’è il cantiere, quindi per forza i due cellulari, dell’accusato e della vittima, erano nella stessa area: Bossetti ci abita a Mapello. 
Il problema è che siamo al momento in cui le indagini dovrebbero chiarire tutto, con le stesse persone che in oltre tre anni non hanno portato assolutamente a nulla e che già una volta hanno rischiato di far passare per omicida una brava persona. 

Ovviamente, non è mia intenzione contestare  le indagini, né protestare l’innocenza del Bossetti, chi ha letto l’articolo fin qui davvero non può accusarmi di questo. I frequenti inviti a non dubitare della versione giudiziario-mediatica, che leggo da più parti, non mi piacciono per niente. Al contrario, è dovere obiettare se si conosce. Ma è chiaro che se mi chiedono come mai un mio oggetto sia stato rinvenuto in circostanze sospette sul luogo di un delitto, se sono innocente, non posso fare altro che dire: non lo so e non lo so. Non capisco che cosa debba spiegare Bossetti, visto che protesta la sua assoluta innocenza. Sono gli inquirenti che contestano il reato, dunque dimostrino. E spieghino la personalità dell’assassino, non ci s’inventa pedofili e assassini di bambini da un giorno all’altro, senza aver mai dato un segnale di squilibrio in 44 anni e con tre figli. 
Il Dna potrebbe anche averlo messo qualcuno per depistare e l’assassino essere una persona piuttosto potente o il parente stretto di personaggio capace di proteggerlo. Non è la prima volta che si ragiona su quest’ultima ipotesi, né che si condannano innocenti per coprire gli assassini veri, e proprio di recente nella civilissima Lombardia. Inquietante, certo. 














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